L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 5/2020, si è pronunciata sulla corretta interpretazione dell’art. 42 bis del D.P.R. 8 giugno 2001 n. 327 in materia di espropri e ciò sia per quel che riguarda il suo ambito di applicazione sia per le conseguenze che dalla norma derivano nei rapporti tra privati e P.A..
La fattispecie presa in esame dalla sentenza è costituita dalla stipula tra un Comune e un privato di un compromesso condizionato di vendita di un’area poi seguito dal contratto di vendita e dal pagamento del relativo prezzo.
Su tale area, il Comune aveva realizzato alcuni manufatti ed opere infrastrutturali, ma a seguito di un giudizio insorto tra le parti è stata dichiarata la nullità del contratto di compravendita ed ordinato al Comune la restituzione dell’area.
Formulata una nuova proposta di acquisto, rifiutata, però, dai proprietari, il Comune ha emanato, ai sensi dell’art. 42 bis del testo unico sugli espropri, un atto di dichiarazione di pubblica utilità, imponendo una servitù di passaggio in favore del Comune medesimo, quale titolare del fondo dominante.
La delibera comunale, tuttavia, è stata impugnata dal proprietario dell’area sul presupposto, sostanzialmente, che il giudicato di cui alla sentenza dichiarativa di nullità della vendita precluderebbe l’esercizio dei poteri previsti dall’art. 42 bis del testo unico e che, trattandosi di una vicenda privatistica, non potrebbe certo un atto amministrativo incidere sulle trattative aventi per oggetto la vendita dell’area.
Il TAR Marche ha accolto il ricorso del privato sulla base di quanto segue:
a) ha richiamato il principio enunciato dall’Adunanza Plenaria con la sentenza n. 2 del 2016, per il quale ‘l’atto di acquisizione’ non può essere emanato ‘in presenza di un giudicato che abbia già disposto la restituzione del bene al privato’;
b) ha ritenuto che tale principio si applichi anche quando vi sia ‘un giudicato restitutorio non nascente da una procedura espropriativa’;
c) ha osservato che l’art. 42 bis sarebbe applicabile ‘solo a vicende in cui la P.A. agisce nella sua veste di autorità, sia pure senza un valido titolo (ab origine o per sopravvenuta scadenza o annullamento degli atti del procedimento espropriativo) e non anche nelle ipotesi in cui il rapporto fra il privato e l’amministrazione nasce e si sviluppa sul versante privatistico’, non potendo l’Amministrazione – ‘che agisce in veste di contraente privato – ‘mutare in corso di rapporto la natura del potere speso, perché ciò attribuirebbe alla parte pubblica un privilegio confliggente quantomeno con gli artt. 3 e 42 Cost.’;
d) ha aggiunto che, ‘quando il rapporto giuridico fra privato e amministrazione nasce e si sviluppa sul versante civilistico, debbono applicarsi solo le regole del diritto privato’, con la conseguenza che il Comune non potrebbe avvalersi dello ‘strumento pubblicistico extra ordinem’ previsto dal medesimo art. 42 bis;
e) ha concluso nel senso che è ‘fatta salva invece la possibilità di aprire ex novo un ordinario procedimento espropriativo, con tutte le garanzie procedimentali che il d.P.R. n. 327 del 2001 riconosce al soggetto espropriando’.
Impugnata in appello detta decisione, la IV sezione del Consiglio di Stato ha, con l’ordinanza n.4950/2019, rimesso all’Adunanza Plenaria le seguenti questioni:
a) se il giudicato civile, sull’obbligo di restituire un’area al proprietario da parte dell’Amministrazione occupante sine titulo, precluda o meno l’emanazione di un atto di imposizione di una servitù di passaggio, col mantenimento del diritto di proprietà in capo al suo titolare;
b) se la formazione del giudicato interno – sulla statuizione del TAR per cui il giudicato civile consente l’attivazione di un ordinario procedimento espropriativo – imponga nella specie di affermare che sussiste anche il potere dell’Amministrazione di imporre la servitù di passaggio ex art. 42 bis, comma 6;
c) se la preclusione del ‘giudicato restitutorio’ sussista anche quando la sentenza (nella specie, del giudice civile) non abbia espressamente precluso l’esercizio dei poteri previsti dall’art. 42 bis per adeguare lo stato di fatto a quello di diritto;
d) se la preclusione del ‘giudicato restitutorio’ sussista solo in relazione ai giudicati formatisi dopo la pubblicazione della sentenza della Adunanza Plenaria n. 2 del 2016, ovvero anche in relazione ai giudicati formatisi in precedenza.
Così impostata la questione sottoposta a giudizio, dunque, l’Adunanza Plenaria ha ritenuto, preliminarmente, di poter statuire che che l’art. 42 bis del Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità trovi applicazione in tutti i casi in cui un bene immobile altrui sia nella disponibilità e sia stato utilizzato dall’amministrazione pubblica per finalità di pubblico interesse, pur in assenza di titolo, ed ha, altresì, ribadito come già nella sentenza proprio dell’Adunanza Plenaria del 9 febbraio 2016 n. 2 si sia affermato che l’art. 42 bis “introduce una norma di natura eccezionale” e che l’acquisizione ivi prevista “costituisce una delle possibili cause legali di estinzione di un fatto illecito”.
Nella sentenza n. 5/2020 si precisa, infatti, come “La natura di “norma di chiusura”, propria dell’art. 42-bis – desumibile anche dai principi (ora riportati) già espressi da questa Adunanza Plenaria – rende evidente la finalità di ricondurre nell’alveo legale del sistema tutte le situazioni in cui l’amministrazione, quale che ne sia la causa, si trovi ad avere utilizzato la proprietà privata per ragioni di pubblico interesse, ma in difetto di un valido titolo legittimante.
Ne consegue che il dato letterale della norma non osta all’applicazione dell’art. 42 bis nelle ipotesi in cui il difetto di titolo si manifesti per intervenuta declaratoria di nullità ovvero per annullamento del contratto di compravendita.””.
Si è, poi, altresì, osservato come la possibilità di consentire l’applicazione dell’art. 42 bis (e, quindi, del decreto di acquisizione) in tutte le ipotesi in cui per qualsiasi ragione un bene immobile altrui sia utilizzato dall’amministrazione per scopi di interesse pubblico, oltre a non essere impedita dal dato letterale della disposizione, risulta anche coerente con un inquadramento logico-sistematico della disposizione medesima, nell’ambito di una più generale riflessione sull’attività amministrativa e sugli strumenti ad essa inerenti.
Ed invero si legge nella decisione n. 5/2020: “”A fronte del testo dell’art. 42 bis che richiede che l’utilizzazione sine titulo del bene deve essere comunque intervenuta “per scopi di interesse pubblico”, giova ricordare che l’attività della pubblica amministrazione risulta costantemente funzionalizzata alla cura, tutela, perseguimento dell’interesse pubblico, sia che a tali fini vengano esercitati poteri pubblicistici ad essa conferiti – e dei quali l’interesse pubblico costituisce, al tempo stesso, la causa dell’attribuzione e la giustificazione dell’esercizio in concreto – sia che vengano utilizzati strumenti propri del diritto privato, in un contesto generale già delineato attraverso l’esercizio di potestà pubbliche.
Tale affermazione, che può essere ritenuta ormai principio acquisito dall’ordinamento, trova il suo riscontro nell’art. 1, l. 7 agosto 1990 n. 241, che, nell’enunciare i “principi generali dell’attività amministrativa”, prevede che la stessa si effettui sia mediante l’esercizio di poteri autoritativi, sia ricorrendo ad istituti di diritto privato (“salvo che la legge non disponga diversamente”).
Su tale ultimo aspetto il Consiglio di Stato ha evidenziato come l’azione amministrativa che si concretizza nell’emanazione di provvedimenti amministrativi, ovvero quella che si svolge, in forma paritetica, attraverso la sottoscrizione di accordi con i soggetti privati (art. 11, l. n. 241 del 1990, in particolare attraverso gli accordi sostitutivi di provvedimento), così come la stessa azione che utilizza direttamente strumenti disciplinati dal diritto privato (in specie, contratti), partecipa comunque dell’unica (ed unificante) ragione di interesse pubblico, che la sorregge e giustifica, rappresentandone la causa in senso giuridico.
Con la precisazione che il ricorso ad atti di diritto privato (e, segnatamente, contratti tipici e nominati previsti dal codice civile) in tanto può essere ricondotta all’ambito di una azione amministrativa funzionalizzata, in quanto essa si iscriva, anche in ossequio al principio di legalità dell’azione amministrativa, in un contesto di finalità di interesse pubblico, previamente definito mediante l’esercizio dei poteri all’uopo occorrenti e obiettivamente accertabile.
In definitiva, pertanto, può affermarsi che nei casi in cui la pubblica amministrazione – dopo avere individuato per il tramite di un generale e preventivo atto di esercizio di potestà, anche in ossequio al principio di legalità, la finalità di pubblico interesse – decida di perseguire quest’ultima non già attraverso procedimenti amministrativi tipici ed esercizio di poteri provvedimentali, bensì ricorrendo a ordinari modelli privatistici (nei limiti consentiti dall’ordinamento), la predetta finalità di interesse pubblico resta immanente al contratto ed al rapporto così posto in essere.
Con la conseguenza che laddove la finalità di pubblico interesse non risulti (o non risulti più) essere perseguita (o perseguibile) per il tramite del contratto, non può escludersi, in generale, che l’amministrazione possa intervenire sul rapporto insorto (ovvero sulle conseguenze di fatto di un rapporto comunque cessato) per il tramite dell’esercizio di poteri pubblicistici.
A tale importante statuizione segue l’ulteriore che attiene agli effetti del giudicato restitutorio, per come intervenuto nel caso oggetto di esame da parte del Consiglio di Stato.
In proposito l’Adunanza Plenaria ha precisato come perché possa prodursi l’effetto preclusivo derivante dal giudicato restitutorio, occorre che la sentenza preveda espressamente, in accoglimento di una specifica domanda avanzata in tal senso dal ricorrente o dall’attore, la condanna dell’amministrazione alla restituzione del bene; per altro verso, l’effetto preclusivo, in quanto derivante, come si è detto, da una espressa condanna alla restituzione del bene, si realizza con riguardo al provvedimento ex art. 42 bis, comma 2, comportante l’acquisizione dello stesso alla proprietà pubblica (in particolare, al patrimonio indisponibile della medesima) e non può, quindi, inibire anche l’adozione del diverso provvedimento di imposizione di servitù, di cui al successivo comma 6.
Ed invero, se la sentenza coperta da giudicato in senso sostanziale, ex art. 2909 c.c., fa stato tra le parti, i loro eredi ed aventi causa, nei limiti oggettivi costituiti dai suoi elementi costitutivi, ovvero il titolo della stessa azione (causa petendi) e il bene della vita che ne forma oggetto (cd. petitum mediato) ne deve necessariamente conseguire che qualora oggetto del petitum è il recupero del bene alla piena proprietà e disponibilità del soggetto privato originariamente proprietario, non rientra nell’ambito oggettivo del giudicato, e dunque non si pone in contrasto con lo stesso, un provvedimento che, senza incidere sulla titolarità del bene, imponga sullo stesso ex novo (e, quindi, ex nunc) una servitù, trattandosi di ipotesi affatto diversa da quella inibita dal giudicato e assolutamente coerente con, e anzi presupponente, il mantenimento della proprietà in capo al privato.